“We don’t talk about love / We only want to get drunk”, cantavano i Manic Street Preachers nella loro “A Design For Life”, una vera e propria ode alla classe operaia gallese e, al tempo stesso, un’accusa spietata contro quella cultura aberrante e micidiale che esalta il consumo e il profitto come unici valori possibili. Una società costruita su gerarchie rigide e classiste, dove il valore di un individuo è determinato dal suo potere d’acquisto e dalla sua capacità di obbedire a una logica di produzione incessante.
Una società che, come ci ricordano gli Smiths di “Frankly, Mr. Shankly”, usa le umiliazioni come valvola di sfogo collettivo, alimentando una distanza sempre più incolmabile tra i privilegiati e quella “gente comune” che i Pulp raccontano, con feroce e ammaliante lucidità, nella leggendaria “Common People”. Gente intrappolata in vite precarie, in lavori estranianti, come, appunto, quelli descritti in “Line Up” dagli Elastica, mentre ogni sogno viene, sistematicamente, inghiottito e annientato da una routine priva di senso e via d’uscita, basti ascoltare “Big” dei Fontaines D.C.
È un meccanismo infernale fatto di regole, di permessi, di divieti e di vincoli che assorbono ogni energia vitale, ingabbiando tanto gli aridi impiegati di “At Home He’s A Tourist” dei Gang Of Four, quanto le comunità industriali del Nord dell’Inghilterra, sfruttate e ridotte alla marginalità, di cui parlano, invece, i Working Men’s Club nella loro “Valleys”. E in fondo è questo il motore del capitalismo nichilista: svuotare la vita di senso, cancellare la solidarietà e ridurre tutto a una competizione ingiusta, violenta e spietata. Lo sanno bene gli IDLES di “Divide & Conquer”, che denunciano l’erosione di ogni welfare, e gli Yard Act di “Rich”, che raccontano di una società ormai ossessionata solamente dalla ricchezza, dall’influenza, dallo sfarzo e dal potere, mentre Billy Bragg, voce storica del folk-rock di impegno civile, già negli anni ’80, cantava la sua “Between The Wars” contro le derive illiberali del thatcherismo e le sue devastanti conseguenze sociali.
E intanto, mentre i lavoratori arrancano e si indebitano, l’unica evasione possibile resta quella dei weekend passati ad anestetizzarsi, sbronzarsi, drogarsi e dimenticare tutta la merda che li circonda, come urlano i Blur in “Bank Holiday”. Una merda tossica che, inevitabilmente, avvelena e distrugge anche i rapporti più intimi, le amicizie, le famiglie, le relazioni degli Shame di “Concrete”, perché in questo fluire caotico e rumoroso delle stagioni, più che vivere, si sopravvive, e il futuro appare solo una condanna, la condanna esistenziale e snervante dei Murder Capital di “Don’t Cling To Life”.
Una claustrofobia sociale che già si intuiva nella mentalità lavorativa alienante, disumana e narcotizzante imposta agli operai di “Fit And Working Again” dei Fall, oggi divenuta un vero e proprio macigno di precarietà, di disoccupazione e di totale assenza di prospettive, come in “Jobseeker” degli Sleaford Mods. Sono le grida disperate di chi non viene più accettato dal sistema (“The Prayer”, Bloc Party), di chi ha compreso che non esiste alcun vero riscatto sociale (“The Man Who Would Be King”, The Libertines) e di chi si è, ormai, arreso di fronte agli effetti mortali del capitalismo moderno (“Clampdown”, The Clash).
Così, rimaste sole, le persone cercano rifugio in illusioni grottesche, in vincite impossibili, in fughe disperate, come accade in “Soul Suckin’ Jerk” di Beck, e verrebbe da ridere, se non fosse che il dissolversi del sogno è una tragedia reale e quotidiana, anche nella patinata e apparentemente perfetta società a stelle e strisce, fotografata in maniera allucinata da “Bone Machine” dei Pixies. Una società statica, ipocrita, meschina e ottusa, divisa in caste rigide e brutali, dove la mobilità sociale è un azzardo disperato, come cantano i Wilco in “Casino Queen”.
E allora l’unica strada possibile diventa quella che passa attraverso quelle dipendenze anestetizzanti che trasformano la rabbia in apatia e la sofferenza in alienazione, come avviene in “Cellophane” dei Metz, con il loro noise-rock asfissiante e senza fronzoli: denuncia vigorosa di un mondo che spreme e consuma ogni cosa, finendo, spesso, per sprofondare nella depressione più oscura, angosciata e feroce e in una vita che porta, lentamente, verso la putrefazione sociale e politica, proprio come raccontano i Protomartyr in “Half Sister”. Perché, come già detto, senza umanità, senza amore, senza poesia e senza felicità, resta soltanto il dolore — quello ruvido e viscerale di “Not” dei Big Thief.
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