È la Calabria che non fa rumore, quella che resta ai margini delle narrazioni ufficiali e che si nasconde nei gesti minimi, nei volti segnati e nelle processioni antiche; è la Calabria che vive negli scatti in bianco e nero di una donna e una fotografa, Ljdia Musso, che di questa terra porta dentro il respiro, il peso e la leggerezza, il buio e la luce. Un’artista di confine e di molteplicità, capace di catturare, di plasmare e di rielaborare i diversi luoghi dell’anima.
Questo nostro racconto visivo parte e finisce a Pietrelcina, nel Sannio, luogo di fede, ma anche di memoria contadina, laddove, in uno scatto, due mani si cercano: quella rugosa di un anziano e quella inconsapevole di un bambino. Solo le mani, inquadrate come reliquie di un tempo che passa e che, puntualmente, ritorna, come continuità e raccordo, sottile e prezioso, tra il passato e il futuro.
A seguire, una ragazza in costume tradizionale, la “pacchiana”, incarnazione di un mondo antico e rurale, di un mondo governato solamente dalle stagioni, dai loro riti lenti, dalle semine e dai raccolti. È l’Italia meridionale più profonda, quella dei ritmi cosmici e delle feste patronali, quella dei miti pagani che, ancora, sopravvivono, travestiti, da tradizione cristiana.
Questa stessa ritualità riemerge anche nelle foto calabresi della “Naca”, la processione del Venerdì Santo che attraversa le strade di Catanzaro, portando il simulacro del Cristo morto in un evento che ha il sapore amaro delle lacrime, della perdita e della rinascita.
Qui la fotografia non è solamente documento, ma diventa lo specchio di una spiritualità antica, di un ciclo vita-morte-vita che si ripete ogni anno e che, probabilmente, conserva, nelle sue radici più remote, i rituali ancestrali del sole, della primavera e della fertilità. In queste immagini si sente il peso e l’abbraccio della terra madre, il profumo acre della cera, il suono sordo dei tamburi, il respiro di una comunità che si stringe e si trasforma, restando, però, sempre orgogliosamente fedele a sé stessa, ai propri valori, ai propri sentimenti, ai propri idiomi, ai propri miti.
E poi, come un salto nel tempo, più che nello spazio, arriviamo a Napoli, metropoli dalle molteplici, eterogenee e contraddittorie anime, in bilico tra l’Europa ed il mondo, tra l’Occidente ed il Mediterraneo. Una città dove il mare è un confine che unisce e che, contemporaneamente, separa; un confine che conduce e che disperde; un confine che incontra e che divide; un confine che racconta storie di approdi, di abbandoni, di ritrovamenti e di naufragi.
Ed è proprio davanti al mare che la fotografa sceglie di cogliere un attimo di innocenza assoluta, un cane — creatura semplice, ingenua e priva di complesse e di ridondanti sovrastrutture artificiali — che guarda proprio quel mare. In quello sguardo, privo di scopi materialistici e di inutili domande, c’è forse la più autentica riflessione sull’essere e sullo scorrere del tempo. Un’innocenza animale che si contrappone, e insieme si accorda, al tumulto rumoroso degli uomini, dei popoli e delle civiltà che, su quelle stesse acque, si sono affacciate nei secoli: fenici, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, angioini, aragonesi, italiani.
Una riflessione visiva che, idealmente, potrebbe trovare un contrappunto sonoro nell’opera di artisti come William Basinski, le cui dilatazioni ambientali ed i nastri in decomposizione di “The Disintegration Loops” restituiscono la stessa sensazione di tempo che, lentamente, si consuma e, proprio nel suo disfarsi, racconta la storia di ciò che resta, donandoci, ancora una volta, attraverso sussurri, effetti, rumori, voci ed accordi smorzati, la dimensione intima e quasi sacrale dei luoghi ritratti da Ljdia Musso.
Il viaggio visuale si conclude, simbolicamente, all’Auditorium Novecento, antico studio di registrazione ed oggi luogo di cultura, di espressione e di contaminazione artistica e musicale. Un luogo in cui l’elettronica, il post-rock e l’ambient incontrano il folk più sperimentale, mentre i suoni sintetici dialogano con le melodie mediterranee e con il noise-rock, e si diventa, improvvisamente, cittadini di più patrie, figli di più lingue, voci diverse di più Sud. È qui che le immagini di Ljdia dialogano con le sonorità elettroniche di Fennesz, artista capace di costruire paesaggi sonori tra chitarra e sintetizzatori, tra rumore e melodia, tra esplorazione cosmica e meditazione interiore. E nelle note di “The Last Days of May”, nei suoi intensi passaggi psichedelici e strumentali, risuona, con forza e con coraggio, la medesima tensione poetica degli scatti: la ricerca di un senso perduto, di una continuità smarrita, di una perenne e salvifica evoluzione umana che attraversa le stagioni, le epoche, le storie, i volti ed i mari.
Un’eco che richiama anche le suggestioni di Alva Noto e di Ryuichi Sakamoto, che proprio tra elettronica minimale e suggestioni acustiche hanno saputo raccontare il confine fragile tra ciò che scompare e ciò che rimane, tra ciò che può essere afferrato e ciò che, invece, scivola via per sempre. E in fondo, proprio come in questo cammino di suoni dilatati, ogni immagine di Ljdia Musso sembra chiedere di essere attraversata più che di essere osservata, di essere ascoltata nel suo lacerante silenzio, di diventare colonna sonora interiore, personale, soggettiva, individuale di chi guarda.
Così, il lavoro di Ljdia Musso diventa non solamente una testimonianza reale, ma anche un racconto esistenziale, sensoriale e mitico, una narrazione avvincente in cui ogni singola immagine è un tassello di un Sud che non vuole essere né stereotipo, né retorica, né paradosso, né nostalgia, ma, semplicemente, un luogo vivo, cangiante, romantico, passionale e misterioso. Un Sud che resiste e che cambia, che dimentica e che ricorda, che muore e che rinasce — come la “Naca”, come il mare, come i gesti di chi ancora vuole stringere una mano.
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