I Melvins non pongono alcun limite alla propria musica e alle loro sperimentazioni; e fanno benissimo anche in questo caso, che segna il ritorno alla loro formazione del 1983, un perfetto miscuglio di sonorità grunge seminali, di hard-rock e di ricerca mistica e lisergica, grezza e liberatoria, incalzante e magniloquente.
Mike Dillard, il primo batterista della band americana, li riporta, emotivamente, indietro nel tempo, ad un’epoca contraddittoria di difficoltà relazionali e di avvincenti scoperte sonore. Se le persone che, normalmente, facevano parte della loro quotidianità scolastica, familiare e sociale apparivano mediocri e distanti, chiuse e superficiali, sempre pronte ad elargire giudizi gratuiti, sommari e, soprattutto, non richiesti, quelle che, invece, rientravano nella loro sfera sonora, brillavano di eccezionale talento, di sana curiosità, di fulgide promesse e di interessanti esplorazioni in territori sensoriali e musicali in folle, veemente e rumorosa espansione.
Questo desiderio di allargare i propri confini mentali è ciò che consente ai Melvins di riprendere l’antico viaggio, restando sempre fedeli a sé stessi, intercettando gli umori del nostro presente e proponendo una appassionante trama di riff massici, di voci riverberate, di sonorità sporche e di linee melodiche acide ed oblique, che li conducono nei territori del rock più metallico, denso, oscuro e magmatico.
Fango e feedback è questa l’essenza di “Thunderball”, un disco che emerge dai bassifondi della memoria, che vince il disagio spingendo gli amplificatori oltre il limite massimo consentito, producendo suoni estasianti e catramati, con le chitarre che, simili a coltelli arrugginiti, affondano nel cemento urbano, con la batteria anfetaminica e tribale, con una voce che lacera il tessuto dello spazio-tempo, rifiutando ogni armonia preconfezionata e qualsiasi schema sociale, che, oggi come allora, ci vuole tutti allineati e pronti a dire, sempre e soltanto, sì. Le risposte sonore e sabbathiane di questi Melvins, in versione 1983 risiedono, invece, vivide ed immortali, su un vecchio nastro magnetico, consumato più e più volte, nonché nelle esplosioni di noise-rock da cui sarebbe, dopo anni, germogliato il grunge, in loop mentali inquietanti, in una visione del mondo senza alcun filtro digitale e senza alcun algoritmo che ti dice cosa ascoltare, perché ogni scoperta è una conquista, è una vittoria, è un atto di libertà e di resistenza esistenziale.
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