Per Torres e Julien Baker, la musica country non è solamente un genere: è sangue, pelle, memoria e radici. È il Tennessee e la Georgia sotto il sole rovente, è l’odore dell’asfalto bollente, è l’auto di famiglia che corre, ininterrottamente, verso un altrove che, forse, non esiste. È la voce gracchiante di una musicassetta logorata dal tempo, infilata da un fratello maggiore che se n’è andato troppo presto o da una madre che ha sempre cantato a mezza voce, tra una sigaretta e una lacrima. Questo disco è un viaggio verso casa e, insieme, un tentativo di liberarsi da essa. Le due cantautrici americane compiono un’operazione che è, insieme, fedeltà e rivoluzione: rimanere nella musica country, quella vera, quella ruvida, polverosa, da strada sterrata e pioggia improvvisa, ma strappandola ai cliché nei quali è stata, troppo a lungo, ingabbiata, derisa, ridotta a folklore di provincia o a retorica da bar.
“Send A Prayer My Way”è una dichiarazione di guerra a una certa narrazione tossica e conservatrice del Sud Americano, che ama indossare il cappello da cowboy, ma teme le verità scomode. Le due artiste dimostrano come la musica country possa parlare ancora alle diverse sensibilità contemporanee e ai nuovi bisogni affettivi delle persone, come in fondo ha sempre cercato di fare, da quando raccontava di dolore, lavoro, speranza, perdita, solitudine o amore proibito sotto cieli troppo grandi per contenere alcune vite. È una strada magica e pericolosa, quella che le due artiste imboccano: un cammino in cui la musica può anche farti stare peggio, può costringerti a guardare in faccia le tue dipendenze, i tuoi traumi, il disamore per te stesso, le ferite mai rimarginate. Ma è proprio lì, in quella zona d’ombra, che si annida la possibilità di una rinascita. La loro voce è, insieme, una carezza e un pugno nello stomaco. Un invito a lasciarsi attraversare dal dolore e dalla rabbia, senza dimenticare il valore sacro della libertà personale.
In questo senso, il loro disco è anche un atto politico e culturale. Una sfida frontale a un Sud e a un modo di pensare che, troppo spesso, si sono mostrati restii a ogni cambiamento, ancorati a tradizioni che sono diventate gabbie, e incapaci di fare i conti con le proprie vergogne. Vergogne fatte di abusi religiosi nascosti, di omofobia strisciante, di discriminazioni normalizzate e di quella malcelata paura nei confronti di tutto ciò che non si conforma all’immagine del “buon cristiano, buon padre di famiglia, buona madre devota”. Questa è la storia di “Tuesday”, la storia di Scott — reale o simbolico poco importa — e di chi ha trovato il coraggio di mostrarsi per ciò che è, in mezzo a chi, rabbiosamente, continua a giudicare, a condannare, a definire “contro natura” o “peccaminoso” ogni amore, ogni relazione, ogni vita che non corrisponda al canone imposto. E mentre tutto questo accade, la stessa società si ostina a chiudere gli occhi dinanzi a ferite ben più profonde e mostruose.
Oggi Julien Baker e Torres diventano la voce di un’America queer, migrante, ribelle, fragile e fiera, che urla il proprio diritto a esistere e ad amare. La loro musica è il vaffanculo necessario a un panorama politico e culturale che si fa sempre più reazionario, intollerante, violento e paternalista. Ma è anche un atto d’amore per una tradizione musicale che, nella sua essenza più pura, ha sempre cantato le gioie e le illusioni prodotte dall’amore, la dignità del lavoro, la bellezza dell’imperfezione umana e la rivendicazione del diritto a essere se stessi. Essere queer e venire dal Sud, oggi, fa paura perché quella voce racconta una verità che il potere preferirebbe continuare a nascondere: che l’amore e il dolore sono universali, e che nessun salotto buono, nessuna chiesa, nessun partito potrà mai domarli del tutto.
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