Ci sono dischi che non si limitano a occupare uno spazio nello scaffale o a scorrere, distrattamente, nelle cuffie. Ci sono dischi che nascono per essere molto di più di una sequenza di tracce: si tratta di opere circolari che si muovono come rassicuranti ed accattivanti spirali, in cui ogni nota, ogni accordo e ogni silenzio sembrano dialogare con ciò che è accaduto e con ciò che arriverà. “Il Dominio della Luce” è esattamente questo; non un semplice disco, ma l’ideale colonna sonora di un film che ancora non esiste, una pellicola invisibile che prende forma negli occhi di chi ascolta.
La sua natura strumentale si mescola, armoniosamente, con un afflato letterario. È musica che racconta, senza la necessità di parole e discorsi, storie che ognuno può riconoscere come proprie, o che forse aveva dimenticato di aver immaginato o sognato. È un lavoro che aspira, chiaramente, ad offrire un gesto di speranza. Un rifugio sonoro che prova ad alleggerire i nostri pesi quotidiani, quei macigni invisibili che ci rendono brutali, violenti, cattivi, chiusi al dialogo con l’altro. In un’epoca dominata da rumori, frenesie e continue guerre di posizione, quest’opera suggerisce di fermarsi ed ascoltare. Non solo la musica, ma anche chi ci sta accanto.
Idealmente, si riallaccia, indirettamente, alla poetica malinconica e luminosa di Nick Drake, senza però cedere mai alla nostalgia sterile. È un’invocazione alla luce, una preghiera laica che riecheggia i rituali antichi dei popoli che abitavano il continente nord-americano. Genti che, in perfetta simbiosi con la natura e con i suoi misteri millenari, si rivolgevano al sole per ottenere protezione, guida e conforto. In quei canti, in quelle danze rituali, non c’era superstizione, ma si respirava, invece, una profonda consapevolezza del rapporto fragile, essenziale, vitale e prezioso tra l’essere umano e ciò che lo circonda. Una consapevolezza che, oggi, travolti da egoismi, individualismi e paranoie, sembra essere sempre più lontana e irraggiungibile.
Questo disco, dunque, è una tela delicata, appassionante, misteriosa e sensuale, su cui la chitarra e il violino tracciano pennellate melodiche ora carezzevoli, ora venate di malinconia. È un fluire di emozioni che risuona dentro di noi, tentando di offrire una via di fuga a quei sentimenti e a quegli ideali che, sovente, restano in balìa di una tempesta fatta di fobie, di frustrazioni, di angosce e di solitudini metropolitane.
Ascoltarlo è come attraversare una radura all’alba, mentre i primi raggi di sole sciolgono la nebbia e restituiscono contorni più nitidi al nostro mondo. È un album che non pretende di salvare, ma di suggerire. Non impone soluzioni, ma invita a riconsiderare ciò che abbiamo fatto, ciò che facciamo e ciò che abbiamo intenzione di fare; esso ci sprona a riscoprire la possibilità di essere meno ostili, meno diffidenti, meno ermetici, meno scontrosi e, quindi, più disponibili verso l’altro e verso sé stessi. Perché a volte la speranza non si grida, ma si sussurra in punta di dita su una corda che vibra.
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